Testo di Roberto Festorazzi

tratto da http://www.laprovinciadicomo.it/

http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?p=4465438#post4465438

William Shirer liquida ad esempio in poche righe la visita di tre giorni che Gandhi compì in Italia, nel dicembre 1931. Scrive che il Mahatma fu ricevuto a colloquio dal Duce per dieci minuti, mentre la conversazione durò il doppio. Ma, soprattutto, Shirer, come altri, ignora i gesti e le parole che Gandhi pronunciò durante lo storico viaggio, che si concluse con un clamoroso saluto romano diretto alla folla. Tornando in India da Londra, il leader indiano passò per la Francia e si fermò in Svizzera, trattenuto da un illustre quanto fervente ammiratore, il Premio Nobel per la letteratura Romain Rolland, che cercò vanamente di convincere l'ospite a rinunciare alla programmata tappa italiana. Giunto in treno a Milano la sera dell'11 dicembre, Gandhi fu accolto in forma ufficiale dal governo italiano con l'offerta di un vagone speciale, con il quale proseguire il viaggio fino a Roma. Pur mostrandosi parco di dichiarazioni, già da Milano affermò di apprezzare la «disciplina, l'ordine e la solida struttura amministrativa» realizzati dal fascismo. Nella Città Eterna, il Mahatma non si limitò a visitare i monumenti antichi, ma vide e lodò anche le opere del regime, come il Foro Mussolini. Tra gli aspetti più stupefacenti del soggiorno romano vi è la circostanza che Gandhi avesse voluto conoscere il segretario del Partito fascista, Achille Starace, che lo ricevette a Palazzo Littorio con tanto di pugnale alla cintola. Il Mahatma aveva mostrato straordinario interesse per l'organizzazione del regime in strutture di massa. Per nulla imbarazzato dal guerresco stile fascista, Gandhi dedicò quasi un'intera giornata a visitare le sedi rionali dell'Opera nazionale Balilla di Roma. Si recò alla palestra dell'Orto Botanico, poi volle vedere le sedi di via Sannio, del rione Monti, di via Puglia e concluse la "maratona" romana alla Legione marinaretti Caio Duilio, sul Lungotevere Flaminio. La full immersion lo tonificò nella mente, oltre che nel corpo, a tal punto da dichiarare di aver ricavato «un'impressione simpaticissima che non dimenticherò mai». Parole che dispiacquero a Romain Rolland, che, in uno scambio di lettere successivo al rientro di Gandhi in India, lo rimproverò con asprezza: «Lei ha passato in Italia tre o quattro giorni in tutto, di cui due in un vagone di prima classe in viaggio da Milano a Brindisi. Lei non ha visto quelli che non possono parlare, quelli che sfogano il loro dolore nell'intimità delle loro case, quelli che sono a "domicilio coatto", quelli che sono deportati nelle isole vulcaniche del sud della Penisola». Ma tali argomenti non convinsero l'apostolo della non violenza. Rispose a Rolland che molte delle riforme attuate da Mussolini lo attiravano. All'amico scrittore spiegò che il Duce «sembra aver fatto molto per i contadini. Senza dubbio ha il pugno di ferro. Ma siccome la violenza è alla base della società occidentale, le riforme di Mussolini sono degne di uno studio imparziale». «Dietro i suoi discorsi enfatici - sosteneva ancora Gandhi - c'è un nucleo di sincerità e di amore infiammato per il suo popolo. Mi sembra inoltre che alla gran massa degli italiani vada a genio il governo di ferro di Mussolini». Congedandosi dalla folla radunata sulla banchina del porto di Brindisi, prima che la nave Pilsna salpasse per Bombay, il Mahatma volle consacrare la sua amicizia con l'Italia fascista levando il braccio nel saluto romano. D'altra parte, Mussolini aveva riservato particolari attenzioni all'illustre ospite indiano. Non si era limitato a mettergli a disposizione una vettura speciale su cui viaggiare, ma lo aveva ricevuto nella sua residenza privata, Villa Torlonia: un onore mai accordato, né prima né dopo, ad un altro leader politico straniero. Naturalmente, questo feeling non basta a qualificare il Mahatma come filofascista, o fanatico ammiratore del Duce. Ma è certo che Gandhi vide nell'esperienza politica italiana di quegli anni un cantiere da osservare con grande attenzione. Nell'esibizione di forza, di muscoli, di istinti bellicosi, tipica dello stile littorio, il leader indiano non colse alcun segno premonitore delle future tragedie. Anche dopo che Hitler ebbe cominciato a mettere l'Europa a ferro e fuoco, il Mahatma tenne sempre a voler distinguere il fascismo dal nazismo, le responsabilità del Führer da quelle di Mussolini. In un colloquio con il giornalista fascista Mario Appelius, che lo incontrò a Calcutta nel luglio 1923, Gandhi spiegò di essersi ispirato a Mazzini nel suo grande progetto di visionario al servizio del popolo e della sua "sacra" missione storica. «Più una nazione è grande - disse - più ha dei doveri verso l'umanità». Il Mahatma precisò poi all'interlocutore italiano che molti, a torto, consideravano la sua satyagraha come una «resistenza passiva», mentre essa era attiva, in quanto manifestazione intensa di volontà: una concentrazione di energia spirituale che sopravanzava la stessa violenza. Seppure non basata sulla forza brutale delle armi, essa era fondata sulle tre forze dello spirito: amore, fede e sacrificio. Innescato nella mente e nel cuore di 320 milioni di indiani, questo triplice arsenale di valori diventava più imbattibile di qualunque esercito. Poteva la satyagraha essere paragonata in qualche modo alla morale fascista? In parte sì, soprattutto per quanto riguarda i due valori della fede e del sacrificio, che furono il fonte battesimale di tutta la retorica del martirologio fascista. Quanto a Mazzini, il pensatore e protagonista del Risorgimento, poteva costituire il punto di contatto da Gandhi e Mussolini. Il Duce lo riscoprì nel crepuscolo repubblicano di Salò, dicendosi ammirato dai suoi scritti, che considerò «un'autentica rivelazione».