Il Morale e la Scoria

 

Il vizio d'origine nella metafora sociale

 

   La tara ereditaria: lordo, rifiuto e incesto

 

Nel caso letterario dell'automa (auto-ma), la creatura è parto di una fantasia di incesto al femminile; allo stesso modo in cui il frutto del seno di Maria è concepito ad opera dello spirito santo madre, Frankenstein, novello messia, non può che finire male, la storia difatti volge in tragedia, e questa volta senza pathos che possa indurre all'identificazione masochista dell'eroe che muore come catalizzatore dei mali del mondo. Frankenstein è un errore della scienza, Cristo è un mito del matriarcato occidentale che viene ancora imposto, fuori da ogni metafora del simbolico rituale, come modello pedagogico ed etico effettivo, reale, di validità universale; come se davvero l'umanità tutta si possa giovare della morte di qualcuno, che per di più si rappresenta nel ruolo del figlio, votato al martirio per volontà della trinità famigliare (anche se la deliberazione della sentenza è attribuita al padre).

Quanta perversione è insita nel mito cristiano!

Per Maria vergine come per Mary Shelley il figlio è il frutto di un incesto con la madre e come tale non è desiderabile; l'autorità subita come destino sessuale non può che generare, in proporzione, quantità pulsionale di rifiuto verso l'oggetto aberrante; sui figli e sulle figlie nati come poveri cristi in ogni tempo si accumula un destino di distruzione, di malattia o di morte precoce. In quanto figli dell'incesto essi subiscono il rifiuto, la negazione o l'indifferenza nel rispecchiamento di chi li ha partoriti. Chi, suo malgrado, li ha creati ne determina immagine e destino.

L'identità è viziata da una tara ereditaria; la tara è il contenitore e il lordo è l'incesto. Nelle misura di capacità, come allegoria, è il lordo che consegna a vita il netto nel grembo di una tara.

C'è un resto, uno scarto, un rigetto necessariamente imposti da un imperfetto sviluppo affettivo famigliare che impedisce una formazione indipendente e matura nei nuovi soggetti a cui sarebbe spettato, a loro volta, di divenire procreatori attraverso l'amore e la libera scelta. Il paradigma del capro espiatorio vuole che sul figlio vengano convogliate le eccedenze di rifiuto (i peccati del mondo). Insomma, si buttano ogni giorno nella spazzatura, come spazzatura, i figli indesiderati di un rapporto di incesto con il genitore. La negazione della soggettività dei figli da parte dell’identità materna è esattamente materia d’incesto.

Il rifiuto, comunque inteso – nelle accezioni di inquinamento, di opposizione politica e sociale, di devianza – è, in proporzione, l’inevitabile correlato, è l’indicatore sociale dell’incesto o della mancata emancipazione come difetto d’origine nello stile famigliare. È l’ossessione dello sporco o del pulito. L’ingombro dei rifiuti, ogni atto di rigetto (compresa la reazione agli innesti ed ai trapianti) sono dunque proporzioni autoimmuni reattive dell’incesto. Difetti di spaziatura. Né potrà esistere una etica del riciclaggio se non come superamento edipico della perniciosa invadenza del possesso matriarcale che, elevato a sistema, tutto inquina.

L’invadenza del possesso matriarcale sulla figlia, ostentata nella prescrizione religiosa della predilezione dello spirito santo sulle faccende sessuali di Maria, è una realtà molto diffusa anche nelle rappresentazioni odierne delle ritualità della fecondazione in forme differite, per esempio come negazione del parto attraverso l’aborto, che è cosa diversa dalla contraccezione. Il fatto negato nell’interruzione di gravidanza è comunque una condizione somatizzata del faticoso percorso di autodeterminazione della donna attraverso la necessaria fase di riappropriazione del proprio corpo. Riappropriazione da chi? Da quale possesso? La donna rivendica una proprietà di ruolo e una libertà di scelta.

La mancanza di tale proprietà motiva l’antico rito del sacrificio del primogenito sull’altare del dio: il primo nato era più figlio di dio che della nuova madre; il peso d’influenza della famiglia di origine poneva l’onere di una ipoteca sul bambino, che veniva così, in qualche misura espropriato al pieno riconoscimento della madre naturale. Del resto, come potrebbe la chiesa celebrare la morte di Cristo, nel rito dell’aborto differito (nella placenta sindonica), se Cristo non nasce perché preventivamente abortito?

Per questa ragione il cristianesimo avversa l’interruzione di gravidanza in quanto legge dello Stato, il quale (in questo caso investito da una funzione laica paterna) ne espropria l’antico diritto ad esercitare sui figli una economia del controllo anche attraverso la schiavitù sessuale. Nell’evento di una nascita mancata, il dettato matriarcale vede frustrato il mai sopito desiderio di ingerenza sui destini sessuali ed affettivi della figlia, in particolare su ciò che la può rendere parimenti autonoma, libera e potente: il pieno possesso della facoltà di procreare. Gli sforzi di emancipazione della donna, pur senza mai nominare il referente reale contro cui è diretta la tutela, tendono ad emendare la propria condizione attuale da quella d’origine dell’incesto famigliare.

 

 

La sacra famiglia origine dell'antropofagia sociale

 

Tale sistema d’incesto è palese prescrizione nel modello della sacra famiglia: partorito ad opera dello spirito santo (dio-madre), nella piena negazione della sessualità della figlia (Maria vergine), nell'indifferenza di un ruolo paterno fittizio (Giuseppe), nato nel lordo dell’incesto (la stalla) e viziato da una tara famigliare, il figlio Gesù[1], povero cristo per antonomasia, che fine può fare?

Per tali nipoti la nonna è il lupo! È la vecchia strega che Gretel ed Hänsel spingono nel forno della sua casa di cioccolata; la stessa che, per esorcismo, si brucia nei roghi ad ogni carnevale. Il nipote, frutto dell’incesto tra nonna e madre, è un non-nato nel doppio senso di mai nato alla vita, perché non-voluto dal libero arbitrio della madre, e quindi nel senso più vero di figlio della volontà sessuale dei nonni; nonna-to, appunto. Di figli dell'incesto è pieno il Cottolengo; in visita alla Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino (il Cottolengo), Amerigo, personaggio autobiografico di Italo Calvino[2], medita fra sé al cospetto delle suore:

 

Siamo come Cappuccetto rosso in visita alla nonna malata… Ogni nonna malata è sempre un lupo.

 

Le suore non possono che accudire i figli degli altri, in quanto sono madri solo per (o)missione, non per scelta sessuale; per convenzione esse sono votate alla divinità, recluse nel labirinti, più o meno simbolici, dell'incesto con la trinità famigliare. L'abuso di questa forma di possesso matriarcale genera nevrosi e aberrazione. Nella favola di Cappuccetto Rosso c'è almeno il riscatto della ri-nascita ad opera del cacciatore che apre la pancia al lupo alla stregua di un parto cesareo. Il suo intervento è provvidenziale e riparatore, però riporta al tema del ruolo maschile vissuto come violento, come se, a mali estremi, la forza giungesse a supplire a un ritardo nella differenziazione.

Attenzione! Più si nega nel tempo la fase evolutiva della ma-turazione e del distacco, più violento sarà il processo di liberazione. È anche la legge di ogni rivolgimento della storia. Il modello sociale basato sul privato e sul controllo non lascia scampo: o rivoluzione o distruttività (guerre, razzismo) e implosione autodistruttiva (inquinamento, malattie emblematiche come il tumore) che diventa modalità obbligata di scarico ai difetti strutturali del sistema.

L’egoismo del possesso, la cui genetica è nell’indifferenziazione matriarcale, instaura il cannibalismo sociale, per cui il danno di alcuni (malattia, sfruttamento, indigenza programmata) diviene strutturalmente condizione di privilegio e vantaggio per altri e per l’intero regime. Fa buon gioco, a questo punto, ribadire, con la morale cristiana, la natura fondamentalmente cattiva dell’essere umano. Il pessimismo cristiano non è che l’apologia dello sfruttamento sull’uomo, nella presunzione indotta che ogni nostro simile ci sia naturalmente nemico (Homo homini lupus).

Tale premessa è ovviamente sbagliata. È la condizione di cattività, di schiavitù, di appartenenza settaria che deprime il soggetto e lo oggettiva in rapporti di aggressività. Il cristianesimo, in qualità di prodotto ideologico del dettato fisiologico matriarcale, ripropone questa alienazione sotto forma di suggestione mistico affettiva.

La nozione di pulsione di morte, così strettamente connessa all’istinto sessuale di riproduzione, dimostra invece la base genetica alla generosità verso la vita; proprio in vista dell’ineluttabile cambiamento di stato fisico rappresentato dalla morte, l’uomo tende a resistere alla morte generando altra vita. Non può che essere ben disposto verso la specie.

Si può negare la morte con la qualità e l’intensità della relazione sociale. Il tempo è infatti intensità e qualità della relazione.

All’opposto, se si nega la nascita nell’unicità indifferenziata, anche solo il naturale cambiamento di un distacco generazionale è vissuto ed esorcizzato alla stregua della morte; fino a che la crisi, la malattia o la sciagura attuano il cambiamento necessario come negazione della vita.

 

 

Nascere con dolo; meglio essere Barabba

 

La mancata emancipazione socio-sessuale produce, nel luogo della relazione sociale, lo scarto di una opposizione funzionale tra vittima e carnefice, tra padrone e schiavo, tra furbo e truffato, di Caino contro Abele. Sul Golgota è “il giusto”, in quanto tale, ad essere condotto all’esito estremo del martirio; mentre la folla salva Barabba, il malfattore.

Secondo la denuncia irriverente di Collodi, anche Pinocchio viene condannato e imprigionato nella città di Acchiappa-citrulli in virtù dell’evidenza di essere un innocente truffato delle sue monete d’oro; ma quando è l’ora dell’amnistia per i detenuti, si trova sprovvisto della premessa necessaria per giovarsi di tale beneficio: quella di essere un malandrino. L’ironia del politico nell’autore ha qui il sopravvento sulla violenza endemica del pessimismo morale[3]:

 

«Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io,» disse Pinocchio al carceriere.

«Voi no,» rispose il carceriere, «perché voi non siete del bel numero…»

«Domando scusa,» replicò Pinocchio, «sono un malandrino anch’io».

«In questo caso avete mille ragioni,» disse il carceriere; e levandosi il beretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.

 

Meglio essere Barabba che Gesù. Da dove deriva questa visione della legge per cui la pena è fine a se stessa e prescinde dal senso evoluto di giustizia sociale?

Giusto e ingiusto sono categorie sessuali. Alludono al fatto che la prigione-utero debba essere piena o vuota del suo oggetto di ritenzione. Il mal vivente è disadatto a vivere in libertà perché è proprio l’accesso alla libertà che gli è stata negata sin dagli esordi alla vita. Già nascere è un mis-fatto: egli è un mal nato, secondo quel disegno creatore che sovrappone l’identità del figlio alla colpa originale. In proporzione a questo dolo, il nascituro è colpevole per designazione apriori. Se, per esempio, si pensa alla quantità biblica di colpa attribuita alla prima donna Eva, abbiamo l’unità di misura esatta del debito di peccato che grava sul prodotto della riproduzione umana.

Tuttavia, la cacciata dal paradiso è ancora il male minore. Nella psicologia della donna cattolica, ancor meno emancipata perché lo spirito santo madre non attua il distacco con l’estromissione, ma addirittura mantiene il diritto di prelazione, esproprio e controllo sulla fecondazione della figlia, il figlio-prodotto nasce con il marchio del peccato e nell’incesto omosessuale. È colpevole perché inqui-nato da una segreta quanto smisurata violenza ad opera del pos-sesso della madre. Con una simile premessa la riproduzione può diventare (e così è stato per lungo tempo) la principale fonte di schiavitù e di reclusione per la donna. Il dolo (la colpa), il dolore e le doglie del parto (espiazione) coincidono in un unico destino sessuale di condanna contro la donna che si appresta a diventare madre in un inconscio clima di odio e concorrenza da parte della sua stessa fattrice! La consapevolezza umana non ha ancora risolto sul piano della coscienza questa antica inconfessabile verità. Ciò che sommamente potrebbe rendere libera e importante la donna diventa, nella forma espropriata in cui la maternità si attua, una esperienza di rinuncia e di segregazione a ruoli subalterni ed alienati.

La religione mantiene l’efficacia dinamica di questa realtà distruttiva ben al di fuori della sfera del dicibile, nella palude della colpa attribuita in maniera preventiva e proiettiva sui figli, ossia nell’impostura del credo.

La rivalsa distruttiva di questa condizione non può che ricadere con immanente efficacia sul destino dei nuovi nati e quindi sul mondo intero del reale; in questo modo, il ciclo di infelicità, esproprio e distruzione si riproduce come iter doloroso previsto, prescritto e confortato dalla religione che si impone nella sua truffa-legittimazione. La suggestione riesce rigorosamente in un ambito privato di cattività famigliare a cui viene ricondotta tutta la realtà, ricusando ogni esordio verso le molteplici differenze dell’esterno.

 

 

La pena è pari alla mancanza poiché l'ingiustizia è nella premessa

 

Di fronte alla riuscita sociale del delinquente, perverso o deviante, nella fattispecie del ladrone, del cinico di carriera (furto legalizzato del lavoro altrui nell’accumulo di capitale), è un delitto ancora peggiore che il figlio sia un giusto o un innocente, tale presunzione non è tollerabile perché mette in risalto in modo inconfutabile che la causa del sentimento di ingiustizia non è in ciò che si commette, ma è nelle premesse delle origini.

Barabba viene graziato perché è più simile alla vera natura del suo creatore. Non c’è giustizia e non c’è innocenza nel nodo irrisolto dell’esproprio della proprietà di ruolo sessuale. Il difetto di emancipazione grava sul clima affettivo della procreazione. Per la morale teologica occidentale, il processo di fecondazione, gestazione e parto è viziato da forti implicazioni di colpa e di ingiustizia: la prima deriva dal designare come arrogante l’affermarsi della sessualità in autonomia biologica dall’appartenenza primaria (cogliere la mela, la questione sessuale, è assimilata quindi all’insubordinazione eversiva); l’ingiustizia discende dal disvalore e dal disprezzo che, nella percezione della figlia, connotano il sesso femminile perché ripudiato dalla madre quale potenziale concorrente al ruolo di regina del dominio.

È difficile per la donna accedere ad una buona identificazione della sessualità femminile in mancanza di una generosità strutturale nell’amore di casa.

La colpa è il desiderio del fallo. È la rea trasgressione che colpisce la figlia, nel desiderare per sé il fallo del padre il quale già appartiene al patto coniugale (col-pa dre); e tuttavia la migliore madre può amare, con enorme beneficio, la figlia anche attraverso l’induzione seduttrice del marito-padre. L’interesse del padre, la natura del suo amore per la figlia, è anche la misura possibile del grado di altruismo che i genitori concedono alla femminilità in formazione come spettanza di felicità. Generosità è la parola esatta, perché prelude alla comparsa di un genero nell’orizzonte affettivo. In virtù di questo atto di generosità, che la madre concede in misura della propria qualità, la figlia potrà amare se stessa, l’oggetto ideale e la sessualità senza macchiare la propria intima struttura con l’insulto della colpa; ella potrà, a sua volta, giungere al parto senza che questo debba realizzarsi come atto di dolo(re) e debito di colpa da espiare con la moneta della sofferenza, dell’infelicità e del sacrificio, nel dettato biblico della maledizione.

L’umiliazione del narcisismo nella fase di costituzione dell’identità femminile è l’unico vero motivo che può far sì che la donna risulti strutturalmente incapace di amare o di accettare di essere amata.

L’ingiustizia (in-giù-sto) è la mancanza anatomica del fallo. Si invoca la giustizia penale quando la mancanza subita è sentita in modo grave in proporzione al disvalore del sesso femminile accusato nel ripudio ad opera dell’identità primaria; del resto, il giusto sta nel mezzo e si tratta, con ogni evidenza, di un diritto. La giustizia, al pari della verità, è il fallo. Per questo si pretende, a priori, che non ci sia giustizia per la donna.

Solo un’adeguata pena, proporzionale alla mancanza sentita come ingiusta del pene, può dare l’illusione di compensare la ferita: la pena della vita e i rivoli di sangue che sgorgano dalle piaghe del Cristo in croce (specie dalla ferita nel costato da cui Eva “è nata”) sono la reiterazione nel rito di questa sadica illusione.

Nella civiltà sociale la giusta legge è opera del padre, la giustizia è riconosciuta come legittima e, come tale, il primato del fallo motiva alla pace (pa-c’è); nella regressione matriarcale la fonte del diritto è invece il sesso di una madre colpevolizzante ed esigente: la reiterazione infinita del debito del parto e l’incolmabilità della falla narcisistica, conseguenza della mancanza anatomica del pene costituiscono il deficit a cui il figlio-fallo può porre rimedio solo al prezzo di un esproprio dell’intero valore della sua esistenza.

 

 

Presunzione è l'innocenza

 

Nella spirale virtuosa dell’emancipazione, è proprio la mancanza anatomica nella donna a generare l’attraenza come potenziale della differenza sessuale; la mancanza è causa e motore del desiderio del fallo, motiva il senso della vita nella differenza di genere. L’ingiustizia cessa di essere tale per volgersi in ruolo responsabile di potenza nella simbiosi d’amore e con la creazione del fallo-bambino desiderato. Quanto più invece il compimento generazionale è viziato dallo spossessamento, dalla colpa e dal divieto, tanto più la compensazione dell’ingiustizia decreta l’impossibilità all’amore e si rivale nella negazione sanguinosa del figlio in quanto fallo commesso. L’ingiustizia si  cronicizza, diviene cronaca nera della violenza privata nel sociale.

Il sadismo si sostanzia nel godimento reiterato del rito della morte del figlio che, per definizione, è un innocente. È evidente che il motivo della distruttività non è nell’agnello, non ha importanza cosa egli abbia commesso, ma nella disposizione del lupo che lo sbrana. In accordo con questa logica tribale, la teologia cristiana non può condannare la pena di morte perché non può esserci pena più adatta della vita stessa a soddisfare le cicliche voraci e istintuali esigenze di un infelice e crudele creatore.

Il lupo vuol darsi ragione, ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze di buonismo che sono spesso dichiarate nelle teologiche intenzioni: anche sotto le nominali sembianze di certi agnelli (tali solo di nome) possono celarsi le più inconfessabili voracità e le verificabili attitudini alla predazione.

Il figlio ingiusto, espressione speculare del reale sentire dell’origine, è dunque legittimato ad occupare, in modo egemone, il baricentro nella società immatura, dove l’ingiustizia è istituzione. Questa considerazione deve aver motivato il cantautore De Andrè il  quale, nella celebre “Storia di un impiegato[4], si volge contro la società del possesso capitalista, affermando che il potere si regge in particolare sulla propensione di alcuni individui a riconoscere e perpetrare il crimine giusto per non passare da criminali.

Il processo di accettazione dell’individuo in una siffatta norma sociale premia colui che ha peccato commettendo ingiustizia e che, in quanto pentito, viene reintegrato; il pentitismo è assunto a regola di dignità giuridica; in ciò si realizza il fantasma materno, rispecchiando negli effetti la convinzione di una fedina d’identità macchiata che la madre ha di sé.

Lo sanno bene i venditori della candeggina che negli spot mettono l’anziana signora a sindacare sull’efficacia che il prodotto ha di rimuovere la macchia corporale nelle presunte vergini lenzuola della giovane nuora. La vecchia candeggina è sempre aggressiva nel lavare e assolvere la colpa ma, per vendersi, deve assicurare che non produrrà nuovi buchi nelle risultanze sessuali del già bucato.

 

 

L'immacolata mistificazione. Chi-è-sa!

 

Di fronte al vissuto esistenziale di colpa e alle sue implicazioni pulsionali come potrebbe la madre-Eva riconoscere come proprio ed accettare come suo prodotto naturale un figlio concepito senza macchia né peccato? La trama biblica del racconto svolge, come è noto, il quesito nelle conseguenze di relazione tra il figlio buono di Eva, Abele, che viene ucciso dal figlio cattivo, Caino. Allo stesso logico quesito (cioè come possa nascere un figlio emblema di giustizia, se lo stesso è il prodotto della colpa), la teologia romana fornisce la sua più celebre interpretazione secondo cui, non solo il figlio, ma Maria stessa concepirebbe immacolata, senza peccato sessuale (la pretesa di non aver tradito, per emulazione, la supremazia sessuale della madre); è probabile che la dichiarazione di un tale postulato sia formulata nell’intento speculare di poter accettare il valore di innocenza nel proprio figlio…, ma il bluff è madornale! Nei confronti di una dichiarazione di verginità genitale che si presume resti intatta prima, durante e dopo il concepimento, non c’è credo né volontà di fede che tenga nella più ingenua e pia delle fanciulle. Pertanto la mistificazione tentata sull’interpretazione del corpo impatta inevitabilmente con il vero nella mistica tragedia. Impossibile aggirare i meccanismi distruttivi della colpa se è la natura umana in sé che viene negata come tale, pur di non mettere in discussione il vero problema di ogni mancata emancipazione: l’egoismo e il potere sequestrante della madre.

Piace di più credere a Collodi e alla sua fantasia onanistica e androgina che si possa fabbricare un figlio con l’artigianale sapienza delle proprie mani.

Tra il figlio cattivo e Gesù intercorre la differenza che c’è tra un mal-nato e un non-nato: il primo ha diritto a vivere (non sempre maledetto), in quanto espressione socializzata e aggressiva dell’ineluttabilità dell’ingiustizia sessuale; il secondo rappresenta il fallimento dell’ideale d’innocenza già annegato nelle acque amniotiche dell’incesto, il suo destino è di morire (udite!)… per la salvezza dell’umanità e per il bene comune. Muore in realtà (e ne muoiono tanti) nella sadica illusione che si possa colmare la falla sessuale della madre santa e dolente.

Rifiutando la nascita come scissione si giunge invece alla perversione del parassitismo con l’emofilia del vampiro, che è metafora dello sfruttamento delle capacità vitali altrui: per esempio, nel modo in cui il lavoro è intra-preso e tramutato in oro ad opera del capitale privato (nel senso verbale del participio). L’alimentarsi per sangue, tramite il cordone del rapporto di lavoro, diviene modello della relazione sociale di sfruttamento nella produzione.

Specularmente, rispetto al codice del vampiro, al soggetto alienato nella religione non resta nel presente che la sconfitta ed il sacrificio e, dopo la morte, un rimando alla resurrezione.

La morale cristiana si eleva a totale edificazione di un dio che impone il suo comando sul reale attraverso il primato del controllo matriarcale, che si perpetua nel mistero del possesso sui corpi e sulle menti, prerogativa che appartiene alla madre in quanto corpo che procrea entrambi i sessi. Un corpo che non ha nome se non il nome di tutti, non ha sesso se non il sesso di tutti. È corpo e spirito insieme. È dio. È l'inganno giocato sul fatto che nell'evento del parto il figlio è protagonista passivo, testimone senza memoria dell'atto della sua creazione; oggetto non ancora sostantizzato, egli è nella posizione di credente verso l'unico racconto che è quello della madre. 

Chi-è-sa, chi non è non sa e deve credere.

Il padre, attore del fallo, è l’unico testimone che possa dire quanto la pretesa di unicità del possesso materno sia falsa; tale possesso non le compete se non come responsabilità in ogni caso condivisa con il fallo stesso all’atto della procreazione. È una corresponsabilità fisiologica, affettiva e genetica. È invece una impostura limitare in malafede la sostanza della creazione al soggetto della gestazione. Si vuole scambiare una proprietà di ruolo, legittima nelle competenze della differenza sessuale, con un diritto assoluto al possesso. Per far questo sono necessarie due operazioni: elidere il fallo ed estrometterlo dalla responsabilità che lo associa alla creazione; quindi sostituirlo con la costruzione di un falso clamoroso, la cui credibilità è sostenuta, appunto, dal credo.

Il falso più clamoroso è affermare che il credo (o il credere di sapere), cioè la fede nel racconto della madre, possa escludere la realtà della ragione, per un debito del corpo che si presume sia stato contratto in assenza di coscienza del soggetto, per cui la scena primaria (quella della propria nascita, non solo la scoperta della subordinazione al fallo del sesso della madre) debba per sempre rimanere fuori dai territori liberati della propria consapevolezza. Si può in questo senso affermare, con la psicoanalisi freudiana, che la verità è fisiologica, la verità è terapeutica, la verità è rivoluzionaria!

Il matriarcato disconosce e cancella la verità sessuale, rende il suo accesso colpevole alla figlia, fraintende il fallo come proprio o come punizione. L’atto unico del parto si attribuisce origini divine e quella che è una proprietà di ruolo diviene possesso realmente esteso sugli altri esseri umani il cui pari diritto all’esistenza viene negato da una entità superiore, totalitaria, che non ammette deroghe al suo dominio. Tale assolutismo è solo la dittatura del corpo di gestazione il quale pretende che questa non sia una funzione nella dialettica umana della differenza sessuale, ma un potere di proprietà anche sulla vita e sulla morte di tutti e di ciascuno che gli compete.

Tutte le teologie sono tese ad affermare questo dominio, usando l’oppio suggestivo del credo, fin dalla più tenera età, senza alcun rispetto per la soggettività degli esseri in formazione e nella convinzione che tutto gli sia permesso al di sopra di ogni legge della ragione. L’intero sviluppo dell’emancipazione, della conoscenza e della libera espressione è teso a restituire all’umanità dei simili la piena dignità del loro essere in opposizione all’oscurantismo delle chiese e alla cattura sequestrante di ogni dominio di oppressione. Il marxismo, non a caso e con estrema chiarezza, ha indicato il superamento della questione del potere a vantaggio dell’intera umanità nella centralità dei mezzi della (ri)produzione. Chi in particolare esercita il potere di ingerenza, suggestione e controllo sulle intime “cose” della giovane donna, sul ciclo della sua sessualità, impone anche il suo influsso sull’intero ciclo della biologia umana; su questo registro dell’esproprio e del sequestro delle cose altrui, si autoreferenzia l’economia di “cosa nostra”, la mammafia della costrizione, della teologia, dello sfruttamento.

Il genere umano da sempre persegue sulla via dell’autovalorizzazione la piena emancipazione del ruolo sessuale e dell’azione generazionale. È nel più alto interesse collettivo che ciascuno sia responsabile dell’intero possesso delle sue azioni.

La chiesa cattolica, in particolare, nell’affermare la sua forma socializzata del dominio matriarcale, è costretta a confezionare, come regola, il falso storico; già dal falso editto di Costantino, la chiesa trova il modo di attribuirsi una impossibile legittimazione affinché lo spirito, entità astratta pretesa sovrumana, sia soggetto giuridico possessore di beni molto materiali, giungendo fino al punto di farsi stato e di ingerirsi nelle vicende di ogni altro Stato. Il regno del dio cristiano diluisce nel mistero del credo la ineludibile coscienza di essere basato sull’impostura e la falsità.


[1] Il figlio è l’oggetto sul quale solo per trasposizione si riversa il rifiuto conseguente all’imperfetta differenziazione (ma-turazione), l’ostilità-distacco è in realtà diretta, in modo inopinabile e inaccettabile, verso la madre. Ogni comprensione di questa realtà non può che essere blasfema in quanto acquisizione di coscienza rivolta contro il dio creatore. Da qui la necessità di trasposizione su oggetti conseguenti e sostitutivi: oltre ai figli dello spirito santo, lo stesso pianeta in quanto madreterra è oggi ancora oggetto di negazione e di rifiuto (in-qui-nato) da parte della logica modernista, ma non sufficientemente consapevole, della razionalità produttiva.

[2] Italo Calvino; La giornata di uno scrutatore, Oscar Mondadori, Mi, 1994, p. 80.

[3] C. Collodi; Op. cit., p. 76.

[4] Fabrizio De Andrè e Giuseppe Bentivoglio; Nella mia ora di libertà, in Storia di un impiegato, Ed. musicali: Editori Associati su licenza Dischi Ricordi, 1973.

 

 

 

 

Copyright 2004 © Sergio Martella