Il Doppio e il Tradimento

 

IL difetto di emancipazione, l'omosessualità

Il figlio di Mary

 

Quale differenza tra Pinocchio e la mostruosità distruttiva di Frankenstein! L'altro famoso parto fantastico della letteratura opera di Mary Shelley (1818)[1]. Si fa ancora fatica a capire che non vi è fantasia che non sia men che reale, che non c'è realtà virtuale che non sia anch'essa parte integrante del vero. Il mito di Frankenstein non può che appartenere alla materialità delle proiezioni umane. Come Pinocchio, è l'artificio di una fantasia reale che elude, per ipotesi fantastica, la strettoia fisiologica del parto. In questo caso però la negazione del parto è sorretta da una distorta idealità della conoscenza umana, è motivata da fantasie di negazione del ruolo materno, vissuto come distruttivo sul piano sociale, senza neppure essere veicolo di una disposizione d'amore verso il figlio.

La creatura è mostruosa, deforme. Ci riporta all'incesto; al Minotauro e al labirinto come negazione dell'esterno, a Polifemo che trattiene uomini e greggi (ma è incapace di distinguere l’essere umano dall’animale) e all'utero-caverna (che potrebbe essere una chiesa il cui unico occhio è nel rosone della facciata). Frankenstein è il prodotto di un conflittuale rapporto figlia-madre. Il suo mito è il parto della fantasia di una donna che anche nella realtà biografica ha problemi con il parto naturale. Essa nega la maternità come donna in difetto di identificazione di sesso e di ruolo. Non ci sarebbe altrimenti motivo di eludere la naturale fisiologia della procreazione: tale funzione femminile le appartiene. Non appartiene invece a Geppetto in quanto uomo.

Aldo Naouri, pediatra e psicoanalista francese che ha studiato la natura profonda della relazione tra Le figlie e le loro madri[2], giunge a considerare correttamente fino a che punto la madre sia il centro nevralgico di tutto il dispositivo relazionale:

 

Al punto che i bambini avranno con lei, all'inizio della loro vita, un rapporto assolutamente identico sotto tutti i punti di vista. È il suo corpo che li ha portati dentro di sé, maschi e femmine, è il suo corpo che ha soddisfatto tutti i loro bisogni senza che dovessero neppure esprimerli. Ed è sempre il suo corpo che, durante la gestazione, ha scritto nel loro cervello in via di formazione un alfabeto sensoriale che porta il suo stampo incancellabile e che servirà loro per tutta la vita e in ogni circostanza a mediare ogni cosa e ogni avvenimento del mondo che li circonda.

…Se è vero che questo amore resta per sempre il modello originario sul quale verrà ricalcato ogni amore successivo, bisogna anche constatare che il destino amoroso del maschio è, naturalmente e fin dall'inizio, eterosessuale, mentre quello della femmina, altrettanto naturalmente, è omosessuale.

 

Il corpo dell'identità creante può esporsi all'evidenza di omosessualità rispetto al corpo del figlio dello stesso genere. Uomini e donne nascono dal corpo di una donna. È ciò che esclude ogni simmetria, e quindi ogni uguaglianza, nel diverso sviluppo sessuale tra maschile e femminile. È ciò che rende irriducibile la differenza sessuale anche contro l'esasperato rifiuto sessista di quanti in realtà falliscono, per insufficiente distacco dall'identità materna, l'identificazione di ruolo.

Anche per le donne, infatti, è inesatto dire che l'identificazione sessuale si realizza con la madre: con essa vale, ancora più forte, la relazione di identità: ubi maior..! Il primato dell'identità e l'oggettiva ambivalenza sessuale, rendono comunque difficile, senza opposizione, la distanza necessaria per una identificazione. Il corpo identico (a cui si è appartenuto) non favorisce da solo lo sviluppo nella figlia della coscienza di essere simile alla madre. Per riconoscersi come simile occorre lo scarto della differenza. È con lo sguardo del padre, per contrasto, che la figlia può percepire di avere un valore come donna, di identificarsi in quanto tale. Donna a sua volta. E non in rapporto alla madre. Come vorrebbe invece il peloso ed esclusivo interesse dello spirito santo per Maria.

Anche Collodi deve affrontare la questione omosessuale quando azzarda a mettere Geppetto nella funzione ribaltata di soggetto creante. Nel racconto della creazione del burattino, è presente l'allusione all'atto sessuale, almeno nel modo in cui viene mimato il trambusto della zuffa tra il falegname e l'amico Mastro Ciliegia; la parrucca bionda del "Polendina" e lo stesso ciocco di legno rimandano ingenuamente al gioco tra pube e pene.

 

 

Ego e Narciso. L'isteria del virtuale

 

Bisogna in ciascun caso distinguere tra devianza omosessuale ed ambivalenza affettiva. La prima non è mai una condizione di scelta come si sente dire, ma è sempre il fallimento dell’identificazione di ruolo la cui causa è nel difetto di differenziazione dal corpo sessuato di origine sul quale finiscono per appiattirsi tutte le funzioni di identità ed identificazione dell’Io.

È il difetto di Narciso del rispecchiamento: la creazione del doppio con un’altra immagine di sé è segno che la possibilità di differenziazione è oggettivamente così difficile, da essere vissuta, con colpa, come tradimento; in assenza di una trasgressione fallica riuscita, ci si sdoppia nell’illusione di lasciare solo una parte all’appartenenza primaria e di salvare il resto come autonoma identità sessuale.

Nascono da qui le fantasie sulla realtà virtuale come alterità e fuga dal reale. Per esempio quando si enfatizza la produzione di realtà virtuali con il mezzo del comp-uter(o) la fantasia è quella dell’appartenenza ad una sorta di iperspazio in un’altra dimensione. Non è pura cop-isteria l’idea di fare una copia virtuale del mondo?

La rete di computer è in realtà un implicito relazionale oggettivamente emancipatorio in quanto isopatico, negli effetti di ricaduta della macchina intelligente che qualcuno ha definito la tasca di Eta Beta, rispetto al dominio dell’utero sociale[3]. Internet è interattivo, socializzante, quindi “democratico” perché necessariamente esteso per funzionare. Questo “pinocchio”, creatura voluta da Bill Gates, libera i rapporti sociali della commedia umana scritta nell’invenzione di un nuovo linguaggio: il Bill-ings-gate (il termine equivale a “linguaggio volgare” ed è anche il nome del mercato del pesce a Londra), cioè la vulgaris eloquentia dell’e-mail che restituisce la complessità della tecnica cibernetica alla fruizione interattiva dei soggetti. Come l’iter di Dante nel mezzo della vita, internet si situa al di qua del cancello della vita (Gate) in un luogo immateriale nel quale ha aperto una storia che tuttavia non rilascia scorie inquinanti del rifiuto.

Internet può essere solo un/mezzo estensivo della realtà (mai un intero), una distorisione relazionale, quindi temporale che non è sostituzione. Si tratta di un interno che non è distruttivo perché non ingloba nell’intenzione di negare e non impedisce, in uscita, il parto di ogni comunicazione. Non si pone dunque la questione del doppio come tradimento ad opera dell’oggetto narcisista non differenziato dall’identità creante. Anzi, pone il soggetto nel posto che gli compete: nel luogo di transito, sulla soglia tra interno ed esterno. Il computer non è uno specchio ma un io speculare dinanzi al quale si può incontrare l’Altro. È lo spazio semantico a divenire virtuale, non la realtà; come per Alice, è possibile incontrare la meraviglia dell’altro oltre lo specchio della propria immagine-azione, nell’interattivo della profondità.

In questo processo di autonomizzazione e di risoggettivazione delle coscienze che è l'interazione liberante tra l'uomo e lo sviluppo di una tecnologia biocompatibile, si realizza l'antico sogno da sempre perseguito: l'umanità dei soggetti consapevoli si sostituisce a dio, vanificando la pretesa oggettività del suo dominio nello scambio ricco e paritario delle relazioni.

 

 

L'uccello di Wilde

 

È invece una fantasia narcisista ed omosessuale l’illusione che il ritratto di Dorian Gray sia più vivo del suo originale, nel celebre romanzo di Oscar Wilde[4]. L’autore affronta la (personale) questione omosessuale nel confronto tra il protagonista ed il suo ritratto. Egli esemplifica il distacco tra l’Io ed il suo ideale. È ciò che può accadere nei casi in cui la madre del soggetto omosessuale si viva interiormente alla stregua di un maschio mancato, quando in realtà le è stato impossibile identificarsi con la propria funzione sessuale come donna. Ella sequestra per sé il sesso del figlio, al quale non resta che realizzare l’ideale femminile come debito irrisolto della madre. Wilde si esprime nelle sue opere mischiando il dramma all’ironia e cercando un riscatto di dignità nel de profundis della denuncia letteraria.

Come è noto, giungerà alla rovina per amore del suo oggetto di identità nell’impossibile impresa di acquisirlo all’unità con se stesso. La sua anima non era nel riflesso dell’amante, ma sequestrata dall’immagine interiore della madre. La scissione narcisistica tra l’Io e la sua immagine ideale è al tempo stesso la forma dell’alienazione di ruolo e il tentativo di sottrarsi alla cattura omosessuale. L’esproprio dell’identificazione di genere da parte femminile riesce quanto più è mantenuta fuori portata nel figlio l’identificazione maschile nei confronti del padre.

Il destino di Oscar Wilde ricalca in modo autobiografico quello della rondinella nella celebre favola di cui è l’autore: l’uccello fallisce l’identificazione di ruolo con la rinuncia alla trasmigrazione invernale con i simili della sua specie per restare più a lungo nei pressi della statua del Principe Felice; questa dipendenza protratta nella suggestione dell’affetto di identità primaria è giusto una poetica della funzione infantile che gli sarà fatale perché ritarda fino a rendere impossibile lo sviluppo del ruolo di adulto. È questo il tributo richiesto dalla madre: morire insieme, nell’implicito dell’incesto (in-si-è-me), per non subire la mancanza di genere.

Il morire cristianamente del figlio sostituisce ed allontana l’elaborazione del lutto e la depressione nella madre nella temuta evenienza di un distacco generazionale che metta a nudo il vuoto sessuale.

La figura del principe è in realtà il doppio materno di Wilde. Nella sua prefazione all’edizione economica Newton[5], Silvio Raffo rileva il rapporto di doppio negativo e di specularità tra la statua e Dorian Gray, senza peraltro cogliere il senso affettivo dello spiritualismo cristiano che è nell’attitudine al sacrificio:

 

Il Principe Felice è esattamente il doppio rovesciato, l’immagine speculare di Dorian. (…) Il Principe si spoglia e addirittura si disquama dell’oro, diventando shabby per far trionfare la bellezza spirituale nell’espressione più alta dell’amore-donazione.

 

Il grado di religiosità espresso nel racconto è misura esatta della quantità di incesto veicolato nella suggestione del messaggio. La bellezza spirituale di cui si parla è, in realtà, un tentativo di sublimare una inutile quanto crudele sofferenza.

Nella favola Il Gigante egoista, il ruolo di possesso della madre è reso in modo ancora più eclatante: l’ambivalenza del rapporto, indissolubile e struggente, tra il bambino Gesù ed il Gigante-madre trascina la scena del giardino fino alla morte, in paradiso. Il fallimento della vita resta racchiuso nelle mura del giardino, nell’eterna fanciullezza e nell’inutile trascorrere delle stagioni.

Quando l’identità primaria pone in termini affettivi l’esigenza di esclusiva proprietà sul corpo dei figli (l’amore-donazione è in realtà restituzione del debito di creazione) gli esiti risultano comunque distruttivi: il martirio come atto di donazione non è scelta ablativa, ma è smacco subito per volontà dell’egoismo del possesso. La salvezza della dignità del soggetto risiede solo nello stile poetico e nel pathos in cui si compie la caduta del destino. Così in Wilde la suggestione struggente che è nel tono della favola non è lirismo: è denuncia, nella più alta forma letteraria, della ferocia sadica che, nella forma dell’amore filiale, esige la restituzione della vita.

È lo stesso urlo di denuncia che fu di Pasolini: non c’è che la morte quale unico riscatto contro l’impotenza di  una falsa vita vissuta nel velo di confusione con l’identità egoista. Il cellofan, la placenta incarta ogni cosa nel falso rito di una vita non vissuta, di una eterna infanzia, pretesa immortale, ma che uccide la vita. Districarsi dall’identità di possessione, dal sequestro fusionale, implica che l’io-figlio uccida l’io-madre anche se questo matricidio imperfetto è in realtà un suicidio riuscito, che porta alla tragedia anziché all’escissione del soggetto.

Così pure Cesare, che aveva marciato contro (mamma) Roma, è ucciso da Bruto, il figlio simbolo del suo io-adottivo. La sua bisessualità è documentata da Svetonio; tale fama risaliva al tempo della giovinezza. Testimonia lo storico[6] che durante una missione in Bitinia si fosse prostituito al re Nicomede; le voci malevoli tra i Romani definivano Cesare marito di tutte le mogli, moglie di tutti i mariti.

Della medesima natura è il fascino dei grandi condottieri della storia.

Cesare ha nel nome il destino del taglio, della cesura; cercava forse il padre trionfatore sulla patria madre[7]. Se l’identità primaria mantiene il possesso, il cordone non solo non viene reciso, ma diventa nodo, imbroglio, intrigo. Alessandro è Grande nello stile perché lo recide d’un colpo, senza indugio. A Cadice, guardando una statua di Alessandro Magno, si narra che Cesare addirittura piangesse, constatando che alla sua stessa età il Macedone aveva già conquistato il suo impero. Dopo quella circostanza, riferita da Plutarco, dormendo, Cesare sognò di possedere sua madre; così gli indovini interpretarono il sogno[8]:

 

…la madre, che a lui era parso di possedere, niente altro era che la terra, che deve ritenersi la madre di tutti; dunque egli avrebbe posseduto il mondo.

 

Il sogno, divenuto bisogno di dominare la madre, è rimarcato da un altro episodio narrato da Svetonio, allorché, nella campagna d'Africa, scendendo dalla nave, il grande condottiero inciampa e cade; con prontezza di spirito, Cesare stringendo in pugno un po' di quella terra sulla quale era caduto, esclama: Terra, ti tengo!

Tenere per non temere di essere tenuto, possedere per non essere dominato. L'illusione controfobica realizza, in ogni caso, il fantasma del governo della madre. Ciò accade sia nel destino individuale sia nei ricorsi sociali della specie, nelle fasi in cui addirittura la guerra giunge ad imporre un limite violento al divenire, appena che il controllo materno sul sociale percepisca lo sfuggire degli eventi al suo potere. Sino al limite della distruzione e dell’autodistruzione bellica, lo statuto di nato è imposto ad ogni soggetto del creato. Bisogna invece uccidere le nazioni e le ideologie dei vecchi e nuovi nascismi perché la differenza esalti la libertà degli scambi e delle libere associazioni tra gli esseri umani.

Il pos-sesso della madre è anche e soprattutto la questione dell’impotenza o del potere in tutte le accezioni della sessualità e della politica.

 

 

Il disvalore al femminile

 

In fatto di ambivalenza maschile, Pinocchio non corre il rischio di diventare il doppio femminile del ruolo di  mammo giocato dal padre, in quanto il distacco come debutto nel mondo è la miglior cosa che gli riesca di fare. Solo con la riuscita di questa distanza è possibile che la differenza tra il creatore ed il suo prodotto possa sublimare il debito di appartenenza corporea in capacità d’amore. L’affinità somatica tra genitore e figlio dello stesso sesso, quindi anche tra mamma e bambina (a maggior ragione), è di per sé una ottima condizione per imparare ad amare. Se non viene soddisfatto questo rapporto di ambivalenza (appartenenza di identità risolta nel reciproco rispetto) sarà precluso anche l’amore eterosessuale. Insomma, è necessario anzitutto poter accettare il proprio sesso per giungere alla completa capacità di soddisfazione sessuale. Alla donna stessa la sessualità femminile sembrerà inquinata dagli effetti del rifiuto se l’oggettivo potere della madre non saprà coniugarsi con il dovuto rispetto nel permettere alla figlia di differenziarsi. Da dove altrimenti verrebbe la velenosa invidia che colpisce Biancaneve, se non dalle brame dello specchio della matrigna?

Il rispetto nel gioco del senso linguistico allude alla spazializzazione che intercorre nella relazione dell’uno rispetto all’altro, e viceversa; così pure, il termine diviso può essere inteso correttamente scandito come di viso, cioè nel  faccia a faccia di un rapporto paritario e reciproco.

Il doppio e il tradimento sono anche espressi nell'iconografia mimata dal gesto delle corna. Mignolo e indice misurano la distanza, rimarcata in modo deciso, tra il dito piccolo (il bambino) e l'autorità dell'adulto; l'indice ha qui il significato che il complesso di Edipo attribuisce al superìo. La sottrazione, semantizzata nella distanza tra le due dita della mano, assume la valenza dell'irriverenza offensiva, del tradimento. L'oggetto segnico delle corna conserva nella cultura popolare sia il valore di amuleto portafortuna, sia quello dell'inganno affettivo e dell'ingiuria.

Il tradimento amoroso realizza inconsciamente il bisogno sentito come liberante di tradire la regola di appartenenza e fedeltà al partner sul quale sono indirizzati, con intenti distruttivi, le attribuzioni di transfert del possesso genitoriale. Quella di tradire il sesso del possesso del genitore è una pratica affatto diffusa, in chiave proiettiva, nelle dinamiche della coppia; così (inutilmente) l'insofferenza per una mancata emancipazione dal legame di origine genera reiteratamente l'illusione di una liberazione nel rito di un tradimento differito ai danni del compagno nella coppia.

L'intero dispositivo semantico delle corna ci riporta con coerenza al valore propiziatorio della tauromachia, dove l'uccisione attraverso un rituale rischioso del toro, la grande bestia con le corna simulacro della minaccia e della forza, prepara e favorisce il cambio generazionale. Il superamento della potenza materna a beneficio della donna giovane fa si che la trasgressione divenga gioco necessario. Il dominio costituito si lascia spodestare, per sopravvivere nel metodo, rinnovandosi nella spirale evolutiva della generazione più attuale. Il tradimento può restare prassi corrente che non inceppa il sistema ma che esprime una variabile correlato necessario dell'omossessualità femminile.

Fra gli esseri umani la fantasia, in realtà tutta materna, che l’entità generata sia destinata a spodestare il genitore è attribuita, nel mito, alla convinzione del padre; si dice che sia il figlio (Zeus, Edipo…) il predestinato a spodestare il padre: è però la madre che motiva il parricidio proponendosi come referente sessuale immutato nel salto generazionale. La figura sessuale a cui allude il torero nell'arena è ambigua: egli agita un ampio drappo rosso per eccitare il toro, che ha le parvenze di una veste, mentre si muove con eleganza, accennando passi di danza simili a quelli di una ballerina di flamenco.

L’affermarsi dell'incesto dovrebbe invece esorcizzare l’avvicendamento ed il superamento della centralità materna. Nel mito matriarcale, la madre sposa il figlio oppure questi sposa la sorella.

Ma nella sagra dello specchio, tra proiezioni e brame narcisiste, è proprio la figlia ad avere il danno fatale. La sua potenzialità creante può rimanere per sempre tale nell’esaltazione della verginità; oppure dovrà essere condivisa con l’accondiscendenza decisionale della madre; oppure, nel caso di un distacco, si può configurare come una cacciata ad opera dell’oggetto primario dell’affetto. Solo l’alternativa di un forte referente d’amore del padre, la cui compresenza tuttavia non può che essere il correlato di una buona attitudine affettiva nella madre, la figlia può accedere nel modo più completo alla felicità del suo ruolo sessuale.

Nella realtà prevalente la ginocrazia materna persegue, in maniera più o meno consapevole, l’effetto-scopo di contrastare il pieno e libero attuarsi delle naturali conseguenze affettive della maturazione sessuale. L’arma dell’affetto viene qui usata per legare la concorrente potenziale; l’unità di madre e donna figlia (ma-donna) relega nella con-fusione, che è frode nell’imbroglio del legame, l’imperativo biologico sessuale. Ciò che è indispensabile nel processo di liberazione della donna viene recluso nel limbo del peccato, del colpevole, del proibito.

Si trama una truffa ai danni della figlia; l’impostura consiste nel disprezzare ciò che invece ha sommamente valore nel reale: il sesso della donna, potente sopra ogni cosa perché capace di attrarre, di dar piacere e procreare. Il veleno della mela resta comunque un danno per l’immagine del sé femminile (perché generato dall’identità femminile stessa che promana dalla madre), agisce come una maledizione, e sarebbe finanche fatale nel cristallo di una bara, se non fosse per il bacio dell’amante che ripristina la differenza di genere e recupera, almeno agli occhi maschili, il valore sessuale femminile. La svalorizzazione del sesso femminile non ha origine causale nella misoginia maschile, ma nell’imperfetto rispecchiamento tra la funzione di identità e quella materna. Per la stessa ragione è difficile individuare soggettivamente la causa dell’insoddisfazione nell’identificazione di ruolo; per esempio, può accadere che le donne reagiscano rubando la scena al ruolo maschile per tentare di volgere in rivendicazione omosessuale la mancata elaborazione della differenza di genere.

Anche la propensione a ferire l’amante, a farlo soffrire nelle prove d’amore o nel tradimento rivela la misura dell’inadeguatezza della donna ad accedere ad un valore della propria sessualità che non sia di implicito disprezzo. Come può credere all’amore se lei stessa non si ama? La percezione del proprio sesso come sporco, l’apparente insensibilità nel procurare sofferenza a chi s’offre in completa dedizione e, invece, la predisposizione a subire il fascino del soggetto narcisista ed egoista sono le caratteristiche e i riscontri esperienziali (invero frequenti) che riguardano la giovane donna che si trova a confrontarsi in corrispondenze affettive a partire da una sessualità svalutata, ferita, priva di autostima.

Nella veste di spirito santo, la madre fa la peggior cosa nel confondere a sé la figlia nell’unità mistica e genitale della ma-donna. Ogni esito successivo risulterà viziato da immaturità affettiva o da una disposizione a sviluppare tratti di sado-masochismo.


[1] Biografa di Mary Shelley è l’inglese Claire Tomalin autrice di libri come “Shelley and his World”, “Life and Death of Mary Wollstonecraft”. Esperta in materia è pure Catherine Payling, curatrice del Museo Keats-Shelley di Roma.

[2] Aldo Naouri; Le figlie e le loro madri, Einaudi, To, 1999, pp. 169, 170.

[3] Anche per Moni Ovadia scienza ed informatica esautorano progressivamente il potere della madre.

Intervista di Ugo Volli; Moni Ovadia. Cara mamma, non servi più, in la Repubblica 5/11/1998, p. 45.

[4] Oscar Wilde; The picture of  Dorian Gray, Penguin Books Ltd, London, 1985.

[5] Oscar Wilde; Il Principe Felice, Tascabili economici Newton, Roma, 1996, p. 8.

[6] Luca Canali; Giulio Cesare, Editori Riuniti, Roma, 1999, p. 11.

[7] A titolo di nota di colore, non mancano gli epigoni come nel caso di quello che, sempre dal fiume Rubicone, volle marciare su (non contro) Roma con le sue camice nere, finendo per diventare, per vent’anni, un tragico campione dell’opportunismo. La storia risolse tutto in un incendio, come del resto fu per Nerone.

[8] L. Canali; Op. cit., pp. 16, 21.

 

 

 

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